L'uccisione di Del Bono

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L’uccisione di Del Bono

La notte del 24 ottobre 1867 Tiburzi si rese colpevole del suo primo omicidio uccidendo con una fucilata in quel di Cellere il guardiano Angelo Del Bono, al grido di «Corpo della Madonna, l’ho fatto!». Del Bono era colpevole di averlo denunciato per pascolo abusivo sui terreni del marchese Guglielmi. Per quest’omicidio fu condannato a 18 anni di prigione, ma fuggì dopo 3 anni.


Nella Tenuta di Camposcala Tiburzi uccise Angelo Del Buono, guardiano dei marchesi Guglielmi. Nella sentenza con la quale l’assassino venne condannato a 18 anni di lavori forzati, cosi è stato descritto lo svolgimento dell’accaduto:
“Nel Mandrione posto in Mont’ Alto, evvi una grotta dove convengono pastori custodi di animali pascenti ed altri che nel terreno lavorano, sia per cenare che per dormire. Così pure avvenne nella notte che precesse il 24 ottobre 1867, in cui si trovarono pure Domenico Tiburzi, Luigi Luciani, Luigi D’Eramo ed Andrea Pesetto che avevano in custodia i bovi di Filippo Rossetti e di Francesco Luciani i quali, dopo aver cenato, tosto ne partirono recandosi in cerca di bovi affidati alle loro cure, ed il Tiburzi in ciò fare, armossi di fucile che nella medesima grotta era. Ma indarno cercarono nei pascoli di detto Mandrione poichè erano passati nella Tenuta di Camposcala dei signori Guglielmi, dove incurati si lasciarono pascer a loro bell’agio e retrocessero per restituirsi là dove erano partiti e passarvi quella notte buia e piovosa.
Se non che, cammin facendo, incontrarono due guardiani a cavallo, spediti a Camposcala dal fattore Gabrielli per perlustrare la Tenuta e verificare se per avventura animali bovini ed altri qualsiasi estranei, vi si fossero introdotti, ed in caso li rinvenissero li avessero catturati. Erano essi Angelo Del Buono e Luigi Rossi che come si approssimarono ai detti custodi il primo disse al secondo di ingrillare, com’egli faceva, il suo fucile, sebbene il sapesse non d’altro provveduto che di mazzarella (bastone) ma così disse per intimorirli vedendoli in numero maggiore di loro ed uno ancor armato di schioppo. Poscia, rivolto ai medesimi, li richiese chi fossero e dove andassero. Risposto essere
cacciatori, i guardiani continuarono la via, mentre gli altri seguivano con gli occhi per iscorgere dove andassero e, poiché li videro entrare in Camposcala, e quasi tosto retrocedere inandando avanti ai loro cavalli tre bovi, molto si turbarono, tenendo per fermo che fossero quei dei Rossetti o del Luciani, e Tiburzi, dette tra se alcune parole esclamò:
«Corpo di Dio» e dai compagni si allontanò col suo fucile dalla parte opposta a quella in cui procedevano i guardiani, per non incontrarli.
Appena però quelli passarono vicino ai predetti, costoro li pregarono e ripregarono di lasciarli liberi quelli animali offrendo loro denaro e grano; ma essi costantemente l’uno e l’altro rifiutando e progredirono avanti. Allora quei butteri si diressero alla grotta, quando fatti pochi passi udirono due colpi di fucile l’uno subito dopo l’altro nella direzione presa dai guardiani e dal Tiburzi, per cui temettero che tra I’uno e gli altri fosse accaduto un qualche gran fatto. Né purtroppo s’ingannarono, giacché sopraggiunto Tiburzi tutto turbato e trafelato, chiestagliene la cagione, proruppe con queste parole:
«Corpo della Madonna l’ho fatto»
e domandatogli che cosa avesse fatto, rispose:
«Corpo di Cristo, con una schioppettata uno è cascato, l’altro non l’ho colto con la seconda botta». A tali detti molto quelli si conturbarono ed ammutolirono, lorchè rimarcato dal Tiburzi, temendo che lo avessero accusato del commesso delitto minacciando di ammazzarli tutti se lo avessero fatto, soggiungendo che come da niuno era stato veduto, così non avrebbe potuto incogliere al alcuno di loro qualsiasi male.
Per un periodo di tempo nessuno oso fiatare, tanto che il fatto, attribuito ad ignoti, venne archiviato.
Tratto da: Angelo la Bella, Rosa Mecarolo, Tiburzi senza leggenda, Realistica ricostruzione della vita del brigante attraverso il maxiprocesso ai suoi ‘manutengoli’, 1995


Omicidio Del Buono

Tiburzi a pascolar gli ovini attende,
sull’erba delle strade e se qualcuno,
dei capi s’allontana no l’ riprende,
ch’altrimenti starìa quasi digiuno.
Il guardiano Del Buono un dì sorprende,
il piccol gregge in modo inopportuno,
sul terren dei Gugliemi e al suo garzone,
affibbia una esosa contravvenzione.

Supplica il nostro di tener ragione,
non ha di che pagar tanto denaro,
ma quell’arido cuor non ha intenzione
di porre al proprio agire alcun riparo.
Allor sommessa qualche imprecazione
sfugge dal labbro e non è un caso raro,
perché la povertà chi non la prova
non può saper quale dolor rinnova.

A casa torna il misero e già cova
aspra vendetta alla guardia rìa,
per consumarla del fucil si giova
a un dì d’appresso al cimitero invia.
La Legge in sul momento affatto trova
testi che sanno di sì gran follia,
ma inver qualcuno c’è che del misfatto
ne sa l’autor pur non parlando affatto.

Tratto da: Giuseppe Bellucci, Da Cellere a Capalbio.
Fatti e misfatti del brigante Domenico Tiburzi. Storia in ottava rima, 2017