Il Piano Terra

1893 -1896

Sulle tracce del giornalista Adolfo Rossi “nel regno di Tiburzi”

L’allestimento del piano terra copre un arco temporale di 3 anni, quello che dal 1893 (anno del Processone di Viterbo, che è anche quello a partire dal quale non si hanno più notizie certe di Tiburzi) al 1896, anno della morte del brigante. Ad accompagnare il visitatore lungo il percorso espositivo il reportage del giornalista Adolfo Rossi, celebre firma de La Tribuna, uno dei quotidiani più importanti di quel periodo storico. Rossi, proprio nel 1893, venne inviato come cronista a Viterbo dove, presso l’ex Convento dei Carmelitani Scalzi trasformato in aula di giustizia, in prossimità della centrale piazza Fontana grande, si celebrava il Processone ai manutengoli di Tiburzi (i suoi favoreggiatori per dirla in termini contemporanei). Negli intervalli tra una udienza e l’altra Rossi, con mezzi di fortuna, attraversò i luoghi frequentati dai briganti, e realizzò interviste (tra le quali anche quella “impossibile” Tiburzi stesso) con notabili e gente del luogo. Le sue corrispondenze furono successivamente raccolte in volume intitolato: Nel Regno di Tiburzi.
Frammenti di questo testo sono stati utilizzati per costruire una trama narrativa capace di connettere alcuni aspetti e questioni caratterizzanti il brigantaggio maremmano e di ripercorrere quella che è stata ribattezzata da alcuni “l’epopea di Tiburzi”.

Lungo l’itinerario di visita alcuni di questi brani vengono restituiti ponendo in evidenza, attraverso particolari ritrovati grafici, il lavoro di scavo e interpretazione svolto dagli allestitori del Museo teso a portare alla luce le logiche soggiacenti alla scrittura di Rossi, il suo punto di vista socialmente e culturalmente posizionato. Punto di vista a partire dal quale il giornalista non soltanto racconta, ma costruisce anche la figura del brigante.
Perché non va dimenticato che ciò che in Italia e nel mondo si sapeva a quel tempo di Tiburzi era quanto raccontava Rossi, quanto restituiva la sua penna plasmata da un certa formazione e da appartenenze (sociali, di genere):

una sensibilità e uno sguardo, quello di Rossi, passati al vaglio dell’indagine antropologica.
E proprio questo fa sì che il Museo del brigantaggio, nel raccontare l’epopea del brigante Tiburzi, riesca a sondare molteplici immaginari stratificati (il mondo borghese colto, le culture locali) offrendone lettura e cornici interpretative.

Al centro del piano terra, il simulacro di un treno.
Grazie ad un sapiente montaggio di immagini, il visitatore ha modo di osservare quello che un viaggiatore di fine Ottocento avrebbe potuto cogliere con lo sguardo affacciandosi dal finestrino di una vettura se un treno fosse realmente passato per Cellere.
Un treno promesso ma mai realizzato, che avrebbe dovuto trasportare (simbolicamente, ma non solo) quella zona di alto Lazio verso la modernità. Una modernità desiderata, promessa e infine negata, il cui mancato compimento – è questa la lettura che il museo offre – generò esiti del tutto inaspettati.

In mezzo alberi dai quali pendono foglie ciascuna delle quali riproduce documenti d’archivio e brani tratti da fonti scritte d’epoca.

L’allestimento del piano terra copre un arco temporale di 3 anni, quello che dal 1893 (anno del Processone di Viterbo, che è anche quello a partire dal quale non si hanno più notizie certe di Tiburzi) al 1896, anno della morte del brigante. Ad accompagnare il visitatore lungo il percorso espositivo il reportage del giornalista Adolfo Rossi, celebre firma de La Tribuna, uno dei quotidiani più importanti di quel periodo storico. Rossi, proprio nel 1893, venne inviato come cronista a Viterbo dove, presso l’ex Convento dei Carmelitani Scalzi trasformato in aula di giustizia, in prossimità della centrale piazza Fontana grande, si celebrava il Processone ai manutengoli di Tiburzi (i suoi favoreggiatori per dirla in termini contemporanei). Negli intervalli tra una udienza e l’altra Rossi, con mezzi di fortuna, attraversò i luoghi frequentati dai briganti, e realizzò interviste (tra le quali anche quella “impossibile” Tiburzi stesso) con notabili e gente del luogo. Le sue corrispondenze furono successivamente raccolte in volume intitolato: Nel Regno di Tiburzi.
Frammenti di questo testo sono stati utilizzati per costruire una trama narrativa capace di connettere alcuni aspetti e questioni caratterizzanti il brigantaggio maremmano e di ripercorrere quella che è stata ribattezzata da alcuni “l’epopea di Tiburzi”.

Lungo l’itinerario di visita alcuni di questi brani vengono restituiti ponendo in evidenza, attraverso particolari ritrovati grafici, il lavoro di scavo e interpretazione svolto dagli allestitori del Museo teso a portare alla luce le logiche soggiacenti alla scrittura di Rossi, il suo punto di vista socialmente e culturalmente posizionato. Punto di vista a partire dal quale il giornalista non soltanto racconta, ma costruisce anche la figura del brigante.
Perché non va dimenticato che ciò che in Italia e nel mondo si sapeva a quel tempo di Tiburzi era quanto raccontava Rossi, quanto restituiva la sua penna plasmata da un certa formazione e da appartenenze (sociali, di genere):

una sensibilità e uno sguardo, quello di Rossi, passati al vaglio dell’indagine antropologica.
E proprio questo fa sì che il Museo del brigantaggio, nel raccontare l’epopea del brigante Tiburzi, riesca a sondare molteplici immaginari stratificati (il mondo borghese colto, le culture locali) offrendone lettura e cornici interpretative.

Al centro del piano terra, il simulacro di un treno.
Grazie ad un sapiente montaggio di immagini, il visitatore ha modo di osservare quello che un viaggiatore di fine Ottocento avrebbe potuto cogliere con lo sguardo affacciandosi dal finestrino di una vettura se un treno fosse realmente passato per Cellere.
Un treno promesso ma mai realizzato, che avrebbe dovuto trasportare (simbolicamente, ma non solo) quella zona di alto Lazio verso la modernità. Una modernità desiderata, promessa e infine negata, il cui mancato compimento – è questa la lettura che il museo offre – generò esiti del tutto inaspettati.

In mezzo alberi dai quali pendono foglie ciascuna delle quali riproduce documenti d’archivio e brani tratti da fonti scritte d’epoca.