
Visita guidata con il direttore
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La latitanza di Tiburzi durò circa 25 anni. Dal confronto tra i documenti ufficiali, le cronache e le testimonianze dirette o indirette, sappiano che durante questo periodo Domenichino visse prevalentemente nella selva del Lamone o in atri luoghi impervi, non disegnando di tanto in tanto puntatine a Cellere o in altri centri abitati come Farnese.
A contrastare il dominio di Tiburzi e degli altri membri della sua banda nel corso del tempo si alternano varie forze di polizia, dai dragoni pontifici (prima dell’Unità d’Italia) ai carabinieri reali. Va detto che i tentativi di contrasto al brigantaggio maremmano furono a lungo ben poco efficaci.
Nonostante le difficoltà, in diverse occasioni le forze dell’ordine arrivarono ad un passo dalla cattura. Ma l’inadeguatezza delle armi e lo scarso coordinamento vanificarono tutto. Nel 1877 Biscarini, uno dei sodali di Tiburzi, rimase ucciso in un conflitto a fuoco nei pressi della Grotta del Paternale, nel comprensorio di Ischia di Castro. Nel corso della sparatoria presso Gricciano (territorio di Manciano) morì Biagini (sembra di morte naturale dovuta allo spavento).
I militari incaricati delle ricerche che non conoscevano bene le zone (almeno: non bene quanto i briganti), erano oltretutto mal equipaggiati (di sicuro i briganti erano dotati di armi migliori) e mal organizzati (le stazioni fisse erano poche e distanti, distribuite in modo inadeguato rispetto alle esigenze). Fu con l’avvento del governo Giolitti che la situazione cambiò in modo significativo. Il primo grande colpo messo a punto dallo stato fu il Processone di Viterbo, a cui si giunse dopo retate di massa condotte tra Cellere, Ischia e Farnese. Inoltre, si provvide alla sostituzione dei vertici delle forze dell’ordine operanti in zona. Fecero a questo punto la loro entrata in scena due alti ufficiali dei carabinieri, ai quali viene oggi riconosciuto il merito della individuazione e cattura di Tiburzi: il capitano Giacheri e il tenente Rizzoli, entrambi piemontesi.