La rubrica

La Rubrica

#tiburzicoldcase

La vita del brigante Domenico Tiburzi, il Re dal Lamone, al pari della vita di qualsiasi altro personaggio storico che ha lasciato una forte impronta nel suo tempo, prosegue anche dopo la morte. Oggi Domenichino è soprattutto un personaggio dell’immaginario diffuso maremmano.
Un essere fatto della stessa materia di cui sono fatti i protagonisti della narrativa di tradizione orale: le streghe, i fantasmi…
Eppure c’è anche qualcosa che ancora tremendamente Tiburzi a terra, che lo rende concreto.
La striscia di sangue che si è lasciato dietro. Almeno otto omicidi sono ascritti al brigante cellerese. Otto efferati delitti per lo più maturati all’interno della sua stessa cerchia. Regolamenti di conti interni alla banda del Lamone. O l’esemplare punizione di traditori doppiogiochisti.
Questa rubrica del museo restituisce le storie di questi delitti per come sono stati raccontati. Non alla ricerca di una improbabile (ormai) e – tutto sommato – inutile verità della storia.
Che siano vere queste storie, o solo veramente raccontate, esse rappresentano il giacimento dei materiali che ancora oggi, a più di un secolo dalla sua morte, alimentano l’immaginiamo sul brigante.
Marco D’Aureli, direttore del Museo del brigantaggio di Cellere


Tiburzi per esempio è un brigante leggendario. Un brigante che ha ammazzato una decina di persone, ha fatto fuori una decina di persone, quindi un brigante efferato.
Nel libro Il giustiziere di Cellere io ho cercato di arrampicarmi sugli specchi giustificandolo.
Ha ammazzato il Del Buono, va bene? Per una questione di pascolo di bestiame eccetera eccetera. Ma gli altri li ha ammazzati secondo me perché gli davano noia, anche dal punto di vista operativo della banda.
Ha ammazzato il Pastorini perché lo sfotteva.
Ha ammazzato il Basili perché lo disobbediva, perché Tiburzi probabilmente ha voluto mettere a un certo punto della sua carriera ha voluto mettere i puntini sulle i:
«Guardate facciamo così perché se non facciamo così ci arrivano i carabinieri, ci danno la caccia, ci rendono la vita difficile!»
Aveva posto delle regole, questo è poco ma sicuro.
Il Basili lo ammazza perché si diceva che andava a rubare ai mercanti, ogni volta che c’era le fiere di paese andava rubava ai mercanti.
Il Pastorini perché lo sfotteva dopo il discorso del Paternale che uscì in mutande, scappò in mutande, lo sfotteva sempre difronte alle ragazze.
Poi c’è stato il Vestri, perché l’ha tradito, effettivamente, gli ha portato i carabinieri addirittura nella Selva del Lamone.
Poi chi ha ammazzato? Ha ammazzato Cerasoli perché sembra che gli avesse insidiato la moglie; la moglie s’era presentata al frantoio a prendere l’olio e gli aveva fatto delle avance. Te lo immagini a Tiburzi… gli fa delle avance… e se l’è fatto fuori.
Poi il Gabrielli perché non gli aveva annunciato la perlustrazione dei carabinieri, è chiaro che l’ha fatto fuori per vendetta.
Fu questo modo di fare che gli consentì di vivere il più lungo possibile alla macchia, perché se avesse fatto diversamente probabilmente non avrebbe resistito ventiquattr’anni.
Tratto da un racconto orale di Alfio Cavoli, ne ‘Il fatterello è questo’, a cura di Marco D’Aureli, 2017


Di perfido pensiero, occulto e fiero
L’animo a tristi imprese ponte ha sempre:
Pietà ed amore dal suo cuore nero
Bandito ha ormai, ed a crudeli tempre la vita crebbe.

Bieca la faccia, scruta con lo sguardo
Indagator d’avida avventura;
ghigna feroce, e lesto come il dardo
è nelle imprese: è sua natura piombar veloce.

Il pugnale alla ricca cinta adorna,
nell’ampia sacca al ventre, ognor depone
polve omicida: svelta la mano torna
ad impugnar sovente il suo trombone con ferma idea.

La sua presenza inquieta, terribil lutto
Copre il rio brigante, ovunque passa
Fa strage, incendia e sopra il tutto
Un velo pone di sue nefandezze, e lassa terrore e pene.

Tratto da: autore anonimo, Il Brigantaggio nel Viterbese, 1893